Riceviamo e pubblichiamo questo contributo con l’auspicio di contribuire al dibattito sui tumultuosi tempi che viviamo, nel solco della migliore tradizione tracciata da ComeDonChisciotte.org: uno spazio di pluralismo e liberta’ di espressione, dialogo e confronto aperto e leale.
Buona lettura.
Di Anna De Nardis
“E quelle che non accettarono la sconfitta, e che non si rinnegarono vendendosi ai guerrieri o cadendo nell’apatia e nella rinuncia, sparirono nel grembo oscuro del mondo contadino, dove segretamente si coltivavano le memorie inventate di una società che non c’era mai stata ma che avrebbe potuto esserci, se il bastone e la spada non avessero prevalso; e se le donne avessero potuto continuare a sviluppare la pacifica sapienza della difesa della vita e della salute contro la fame, le malattie, le calamità, la violenza.” Joyce Lussu.
Nel 1988, dal 21 al 29 agosto, ho partecipato a Gerusalemme a un «campo di pace» promosso da pacifiste italiane per favorire l’incontro e il confronto tra 68 donne italiane, rappresentanti di associazioni femminili palestinesi e un gruppo di israeliane provenienti da realtà politiche diverse.
L’iniziativa era stata avviata, nel 1987, da esponenti della Casa delle donne di Torino, del Centro di documentazione delle donne di Bologna e dalle donne dell’Associazione per la pace, per costruire un percorso autonomo di dialogo, oltre l’ostilità tra i popoli, a partire dal vissuto comune delle donne in una società militarizzata. Si intendeva, da una parte, «sperimentare la nostra diversità» e, dall’altra, «rafforzare la capacità di mettere in discussione la preminenza delle armi».1
Perché ricordare un evento di 35 anni fa?
Per due ragioni: la prima, per sottolineare la “disattenzione” dei governi e dei media occidentali verso la condizione della popolazione palestinese che vive sotto occupazione israeliana da decenni, in una situazione di oppressione, umiliazione, violenza.
Uno dei più autorevoli sostenitori dei diritti di quella comunità, il professore Jeff Halper, antropologo israeliano, dichiara:
“la storia che vedo io […] è che il 7 ottobre è stato il sintomo di una colonizzazione continua, di uno stato di apartheid e della sofferenza continua del popolo palestinese. […] Questa ormai è una seconda nakba, e i palestinesi rischiano di essere distribuiti e ricollocati qua e là nel mondo, per poi lentamente sparire.”2
La seconda ragione di questo richiamo è ricordare le esperienze autonome realizzate dal movimento femminista di quegli anni e le pratiche adottate che, sia pure nella diversità dei gruppi protagonisti, comportavano anche un radicale cambiamento di prospettiva nel modo di leggere la realtà.
Durante gli incontri a Gerusalemme, incentrati principalmente sui temi della salute e del lavoro delle donne, abbiamo conosciuto, dal racconto diretto, la condizione delle donne arabe, sia di Israele, sia dei Territori occupati, e il loro impegno a unire gli obiettivi di emancipazione con la lotta nazionale contro l’occupazione. Le palestinesi hanno denunciato gli aspetti di violenza specifica contro le donne, dalla discriminazione delle lavoratrici arabe, all’uso di gas lacrimogeni – lanciati anche in ambienti chiusi – di cui si sono riscontrate conseguenze negative sulla gravidanza fino all’aborto, e di cui si sospettava che inducessero delle mutazioni genetiche.
Dal canto loro, le partecipanti ebree hanno analizzato i riflessi della guerra sulla loro vita e raccontato l’emarginazione subita dalle femministe che praticavano l’antimilitarismo.
Le attiviste dei diversi gruppi hanno parlato di iniziative comuni – spesso nate da contatti personali per la difficoltà a rapportarsi con le strutture organizzate palestinesi – come i centri contro la violenza sessuale, e delle attività di volontariato, come l’assistenza alle detenute, le visite di solidarietà, la raccolta di medicine, cibo, denaro da inviare a Gaza.
Tra le varie manifestazioni contro la guerra, una particolare importanza aveva assunto, anche per la risonanza che aveva avuto in Europa, l’iniziativa delle Donne in nero, un gruppo di cento donne “diverse per opinioni politiche e definizione di se stesse”, che, vestite di nero, si riunivano ogni venerdì in una piazza di Gerusalemme, per protestare in silenzio, spesso sottoposte ad aggressioni di tipo sessista.
Oltre agli incontri di discussione, si sono realizzate altre forme di vicinanza alle due parti, con le visite ai villaggi della Cisgiordania, durante le quali venivano mostrate le conseguenze dell’occupazione militare e le attività di resistenza; con la presenza nella piazza delle Donne in Nero; con la manifestazione con le donne palestinesi, nei pressi del carcere Ansar 3, nel deserto del Negev, per esprimere solidarietà con i detenuti politici – azione brutalmente repressa dall’esercito israeliano.
Tali esperienze mi appaiono in continuità, per il loro significato profondo, con l’intensa attività di studio e di riflessione collettiva scaturita dalla lotta delle donne italiane contro l’uso dell’energia nucleare, a seguito dell’esplosione della centrale di Chernobyl, che ha rappresentato un momento alto del movimento femminista e ha contribuito alla vittoria nel referendum del novembre 1987.
Nel riportare alla memoria quegli eventi, mi chiedo: oggi, queste esperienze di autonomia culturale delle donne sono state dimenticate? O volutamente rimosse? Non trovo più nei nuovi movimenti – almeno in Europa – l’aspirazione a un cambiamento radicale della società, che quelle lotte portavano con sé; la tensione verso il ribaltamento di “valori” che ci opprimono; la volontà di liberarsi di una vita incasellata da regole dettate da altri, soprattutto a livello collettivo. – Più avanti mi spiegherò meglio.
Elisabetta Donini, una delle promotrici del Campo di pace a Gerusalemme, scriveva in quel periodo:
“Occorre «fare la pace» nella pratica concreta dell’esistenza quotidiana, tanto sul piano individuale che collettivo; il che significa che vanno smontati i meccanismi strutturali e mentali su cui si fondano i rapporti di dominio: in primo luogo quello della disparità tra i sessi.”3
Come dire che l’impegno per la pace – per le femministe dell’epoca – richiede percorsi autonomi sia nell’elaborazione culturale che nell’organizzazione di pratiche politiche, in quanto il valore di riferimento si trova nella prospettiva della liberazione e non in quella dell’emancipazione o, peggio, delle «pari opportunità» (concesse dal potere patriarcale) a cui il neoliberismo l’ha ridotto:
“… il movimento di liberazione delle donne, ovunque è sorto, è sempre stato trasgressivo e sovversivo: rispetto a tutto l’ordine sociale, alla tranquillità dei rapporti di potere consolidati nelle famiglie, all’accettazione dei valori dati per ovvi…”4
Tra questi, si intendono sovvertire le basi ideologiche della struttura militaristica propria degli Stati moderni.
Birgit Brock Utne, nel saggio La pace è donna, documenta come, dall’opposizione alla guerra dei primi del Novecento alla lotta contro il nucleare in tutte le sue articolazioni, le donne spesso sono state avanguardie, e hanno inserito tale impegno in un progetto generale di cambiamento della società e dei suoi paradigmi culturali, come, ad esempio:
“Susan Koen e Nina Swaim, che considerano la sete di potere manifestata da un arsenale nucleare sufficiente a spazzare via l’intero globo più volte “espressione della mentalità nucleare “, da esse intesa “come un sistema di fede, un’ideologia che incoraggia l’uso della tecnologia distruttiva per sostenere l’espansione e il dominio insiti nella società patriarcale capitalista. Considerando la società patriarcale come una società caratterizzata dalla violenza, dallo sfruttamento, dalla reverenza per tutto quanto è scientifico come fosse un assoluto, da una profanazione sistematica della natura per la soddisfazione dell’ uomo.”5
E ancora, come Winona La Duke, appartenente alla tribù indiana dei Chippewa che “spiega come le donne indiane americane vedano la lotta per le miniere di uranio: «… noi ci consideriamo come parte integrante, quasi una rappresentanza della terra. La terra è nostra madre. Una donna. Le donne sono sfruttate e così pure la nostra madre terra. E noi dobbiamo lottare per entrambe.» Come donna indigena, la Duke si preoccupa dello sfruttamento storico dei popoli indigeni, della colonizzazione delle terre indiane, e degli attuali pericoli che gli indigeni si trovano a dover affrontare a causa degli impianti per l’estrazione dell’uranio…”6
Anche per la Brock Utne è chiara la distinzione tra uguaglianza e liberazione delle donne:
“Vogliamo l’uguaglianza ma le premesse debbono essere le nostre. […] Non vogliamo diventare come gli uomini, né copiare il loro comportamento. Noi cerchiamo di costruire altri modelli di comunicazione, altri modi di stabilire rapporti, di organizzare il lavoro. […] Ci opponiamo alle gerarchie. Cerchiamo di cooperare e di abbattere la competitività. Miriamo a una formazione che renda le donne capaci di far valere i propri diritti di diventare indipendenti, critiche, ma vogliamo anche mantenere gli aspetti della nostra educazione che ci permettono di prenderci cura degli esseri viventi, bambini e adulti, delle piante e degli animali, e della madre terra, ed insegnare tutto ciò agli uomini.”7
Quindi:
“Come femministe siamo più interessate al concetto di liberazione che al concetto di uguaglianza. […] Invece di chiederci quante donne ci sono nelle varie istituzioni maschili, ci chiediamo quali possibilità le donne hanno o hanno avuto, di influenzare queste istituzioni con i loro valori, la loro cultura […] Nel nuovo movimento femminista, ci siamo occupate della liberazione dalle strutture oppressive. Queste strutture sono un prodotto tanto del capitalismo (sia privato che di stato) quanto del patriarcato.”8
L’autrice, il cui impegno è educare alla pace, ritiene sia necessario a tal fine ripensare i valori e cambiare le strutture che sono a fondamento delle relazioni sociali. Per lei, le principali strutture a cui opporsi sono certamente gli apparati militari ma anche l’attuale assetto della scienza (che “è diventata un dogma, come la cristianità. Si considera la scienza come colei che tiene i segreti dell’universo e ne ha la responsabilità. […] Gli scienziati sono diventati i nuovi padroni della società e della natura.”)9 e la tecnologia (“C’è molta verità nell’affermazione che la tecnologia detta leggi alla politica, che le nuove armi non provengono da richieste militari o di sicurezza, ma sono il frutto dello slancio insito nel processo tecnologico.”)10
Riguardo a questa problematica, “c’è da discutere come [le conoscenze] vengono prodotte, quali rapporti di potere incorporano, a quali finalità rispondono.” – afferma Elisabetta Donini.11
Tale dibattito è avvenuto soprattutto in seguito al disastro nella centrale nucleare di Chernobyl:
“Attraverso la critica dell’idea meccanicistica del progresso, sia sul versante dello sviluppo industriale, sia su quello scientifico e tecnologico; ed attraverso l’elaborazione della coscienza del limite e del rifiuto dell’ideologia del rischio, proprio le donne sono state al centro di un rapido quanto profondo ribaltamento delle categorie correntemente condivise, tanto da rendere manifesto che l’argomento della sicurezza deve essere socialmente più forte di quello della crescita quantitativa. Il successo nel referendum sul nucleare del 1987 ne è stato uno dei risultati concreti più evidenti ed ha avuto molto a che vedere proprio con un mutamento radicale dei criteri di giudizio e con la volontà di uscire dalla logica dell’industrialismo e del produttivismo, in nome del diritto degli individui a vivere innanzitutto rapporti sereni con il loro contesto ambientale.”12
In un seminario sul tema «La scienza e la guerra nell’opera di Christa Wolf», svolto presso il Liceo Classico di Siena nel 1991, in concomitanza con la guerra del Golfo, Elisabetta Donini sosteneva la necessità di “uscire dalla convinzione, di cui la scienza è struttura portante, che ci sia uno sviluppo di necessità degli eventi che approda allo scontro, al conflitto, alla riduzione degli opposti, alla guerra.”13
Metteva quindi in luce il legame culturale tra guerra e scienza, entrambe basate sull’impostazione deterministica dell’analisi della realtà. Occorre quindi riflettere sulla categoria del “necessario”, supportata dai principi della logica aristotelica, su cui sono basate le dicotomie che hanno caratterizzato il pensiero occidentale: uomo/donna, cultura/natura, amico/nemico; espressioni di una razionalità lineare che porta alla riduzione degli opposti, cioè all’annientamento del nemico, così come alla sottomissione delle donne, al dominio della natura, alla distruzione di intere comunità che vivevano (vivono) su territori da colonizzare.
«Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere», ha scritto Christa Wolf,14 indicando, in tal modo, il “rifiuto del concetto di necessità.”
«Vivere» è il messaggio della comunità delle donne dello Scamandro, “le donne cioè che avevano un loro spazio di autonomia e di libertà che pescava nella profondità della storia, in quella fase della storia che non c’è stata tramandata dai filoni di pensiero che sono diventati dominanti, nella fase in cui il femminile era principio organizzativo [della struttura sociale].”
«Vivere» indica pertanto la loro “volontà irriducibile alla logica della guerra”.15
Mentre i Greci seguono la via dell’«apprendere attraverso il soffrire».16 Con questa citazione Christa Wolf “sintetizza una analisi storica della scienza moderna che molte riflessioni femministe hanno elaborato ripercorrendo quale transizione di metafore, quale enorme trasformazione dell’immaginario, cioè del complesso profondo delle culture, è avvenuto tra il Cinquecento e il Seicento, quando la Natura ha cessato di essere madre o meglio, quando i protagonisti, gli inventori della scienza moderna hanno voluto non guardare più alla natura come madre, cioè corpo vivente, insieme dinamico di processi con una sua catena interna di cambiamenti, per trasformarlo in insieme inanimato di oggetti, su cui imporre la volontà di cambiamento dall’esterno. Il ridurre a oggetto: non è questa la forma principale della violenza?”17
La definizione di «pace» proposta da Birgit Brock Utne è la seguente:
“Per pace si intende l’assenza, in una determinata società, di violenza interna ed esterna diretta e indiretta. Inoltre si intendono i risultati non violenti derivanti dall’applicazione dell’uguaglianza dei diritti, per cui ogni membro di quella società, attraverso metodi non violenti, partecipa nella stessa misura al potere decisionale che la governa e alla distribuzione delle risorse che la sostengono.”18
A mio parere, in questa definizione occorre aggiungere (o esplicitare) il principio di autodeterminazione delle donne, che vuol dire anche azione ed elaborazione culturale autonome.
Tale presupposto, soprattutto sul piano della ricerca teorica sul militarismo e sulla scienza, si rende necessario perché – come sostiene la stessa Brock-Utne – “Chi detiene il potere ha anche l’autorità per stabilire le conoscenze da privilegiare, ha il potere di definire concetti, di imporre il proprio modo di pensare come l’unico razionale ed oggettivo, e di etichettare come «politico» e «irrazionale» un modo di pensare diverso dal proprio. […] Come ha sottolineato Basil Bernstein il modo in cui una società seleziona, classifica, distribuisce e valuta il sapere «riflette sia la distribuzione del potere che i principi di controllo sociale».” Pertanto, l’autrice sottolinea che:
“Negli ultimi anni la critica femminista sulle discipline accademiche ha fornito un contributo significativo al dibattito sulla politica del sapere mettendo in dubbio la validità del cosiddetto «sapere oggettivo».
Nel suo articolo sulla falsa ideologia della scienza [Adrienne Rich] mette in luce come i principi secondo cui «la scienza è oggettiva e razionale» e «la scienza è neutrale» sono miti che servono ai potenti, e sottolinea che
«per far sì che le loro scoperte possano essere accettate preliminarmente, gli scienziati adottano uno stile di razionalità formale, insistendo sul fatto che le conclusioni a cui pervengono sono logicamente conseguenti».
[…]
La dottrina che la conoscenza scientifica è «oggettiva» e «neutrale», come anche quella per cui la scienza può stare separata dalla politica, possono essere usate per nascondere lo stretto collegamento tra ricerca e politica, tra pensiero e azione. Queste dottrine impediscono anche l’esercizio della responsabilità collettiva attraverso le organizzazioni scientifiche formali come le società professionali.”19
Parallelamente, come abbiamo visto nell’opera di Christa Wolf, sono stati destrutturati alcuni miti su cui si poggia l’ideologia militarista.
Particolarmente lucida e profonda è la testimonianza di Lydia Franceschi,20 madre di Roberto. (“Il 23 gennaio 1973 mio figlio Roberto veniva colpito mortalmente alla nuca da un reparto della 3ª Celere, schierato davanti all’Università Bocconi, per impedire una assemblea di studenti e operai, autorizzata dapprima dallo stesso Rettore, ed improvvisamente revocata, mezz’ora prima del suo inizio, con l’intervento della polizia.”)
Lydia, che si ribella al ruolo di «madre di un eroe-martire», “cosciente che tale accettazione avrebbe annullato la mia identità e il mio modo di essere donna e madre”, afferma tra l’altro:
“Negare il mito dell’eroe vuol dire non accettare l’attuale cultura di guerra, la filosofia del deterrente, la logica dei più perfezionati eserciti del mondo che si contrappongono alla forza morale e politica dei popoli che difendono la loro identità e il diritto di autodeterminazione.
Negare l’eroe significa non accettare l’attuale meccanismo del profitto portato a forme di illecito tale da determinare aree di sottosviluppo, di fame, di disoccupazione, di disperata impotenza, e l’uso della scienza quando diventa strumento per nuove forme di oppressione, di sfruttamento collettivo ed individuale.”
***
Se mi sono dilungata su alcuni aspetti delle riflessioni e delle iniziative condotte dal movimento femminista degli anni ’80, è per sottolineare la sostanziale assenza di attività pratica e di elaborazione teorica dell’attuale movimento – soprattutto in Italia – riguardo ai temi trattati in questo articolo.
Il filone di analisi introdotto dalle studiose Joyce Lussu e Maria Ludovica Lenzi21, ad esempio, risulta ignorato o abbandonato, al contempo la critica della scienza moderna, che oggi richiederebbe un notevole sforzo di approfondimento, a parte alcune eccezioni illustri (Vandana Shiva, Isabelle Stengers) non è più presente nel dibattito delle donne.
Forse perché, come scrive Silvia Federici, “Negli ultimi vent’anni le femministe si sono impegnate a ottenere spazi per le donne all’interno delle istituzioni, dai governi nazionali alle Nazioni Unite.”?22
In ogni caso, non appare una volontà di mettere in discussione le strutture che sono all’origine della guerra e della violenza e sembra che si sia persa la capacità di essere protagoniste di azioni “trasgressive e sovversive”.
Nel periodo della cosiddetta pandemia (più corretto sarebbe usare il termine «sindemia»), a parte voci isolate di donne storicamente appartenenti al movimento, le attuali aggregazioni femministe hanno accettato acriticamente o comunque subito, da parte degli apparati statali – forze di polizia comprese – una gestione autoritaria, violenta e lesiva dei nostri diritti e della nostra salute, ignorando analisi e contenuti delle lotte delle generazioni precedenti.
Hanno accettato che un potere patriarcale le relegasse in casa – talora in ambienti violenti – e scaricasse su di esse gran parte delle azioni, decise dall’alto, volte a ‘contrastare’ il virus, dalla sorveglianza dei minori all’accudimento dei conviventi malati: costrizioni contro cui quelle della mia età hanno combattuto e che hanno origine nel disciplinamento operato dalla borghesia nascente – contemporaneo all’imposizione di modelli meccanicisti nella scienza e nella medicina – per il controllo della sessualità e della procreazione23.
Come spiega Silvia Federici, nell’ultima parte del XVII secolo, con l’intervento dello stato, “il corpo femminile fu trasformato in un mezzo di riproduzione e accrescimento della forza lavoro, […] funzionante secondo ritmi che sarebbero sfuggiti al controllo delle donne”, privandole, cioè, “della condizione più fondamentale per la loro integrità fisica e psicologica.”24
La partecipazione di medici e scienziati a questo processo fu rilevante, dal contributo alla persecuzione delle streghe25, alla teorizzazione dell’inferiorità biologica e intellettuale delle donne26.
(Oggi, in occasione della pandemia, la ‘reclusione’ ha avuto soprattutto una funzione di controllo psicologico).
È in quel periodo che si elabora la figura della casalinga e il lavoro domestico “fu definito una risorsa naturale esistente al di fuori della sfera dei rapporti di mercato.”27
Lavoro che, nel caso della Covid 19, ha dovuto fornire l’assistenza e la cura domiciliare dei malati, che sono spesso mancate da parte dell’organizzazione sanitaria pubblica. “Nel complesso – scrive ancora la Federici – le donne sperimentarono, insieme alla svalutazione economica e sociale, un processo di infantilizzazione legale.”28
E un nuovo processo di infantilizzazione hanno subito le donne a causa delle strategie anti-covid19, quando si sono assoggettate, ora per ora, giorno per giorno, a norme spesso contraddittorie e di dubbia validità, che piovevano dall’alto delle stanze ministeriali e regolavano la loro vita quotidiana.
Tale processo ha indotto nuove forme di aggressività e di emarginazione, nei confronti di quelle persone che non volevano o non potevano sottostare alle prescrizioni imposte.
(Ma su questi aspetti della violenza non mi sembra che le ‘femministe’ abbiano riflettuto)
Subalterne alla visione meccanicistica della medicina, sostenuta da un governo che ha rifiutato qualunque confronto sulle strategie di cura e sul funzionamento delle strutture sanitarie, le donne dei vari movimenti hanno rinunciato a incontrarsi, e a discutere. Hanno in tal modo rinunciato a quella pratica femminista attraverso cui, mettendo in comune emozioni, paure, problemi, le donne in passato avevano delineato nuove analisi della propria condizione:
“molto rapidamente le donne furono in grado di identificare la loro oppressione come un fenomeno che, se pure ha delle motivazioni ed anche delle conseguenze molto materiali, si mantiene però in piedi così efficacemente soprattutto mediante una complessa struttura culturale, che agisce in modo molto diffuso sia nel tempo sia nello spazio…”29
Da questa pratica, che condusse a una rivalutazione della corporeità, e rifacendosi all’esperienza del self-help, praticato dal Movimento per la salute della donna degli Stati Uniti, sorsero e si diffusero molti gruppi che affrontarono il tema fondamentale della medicina, sia nella riflessione teorica, sia con l’organizzazione di consultori autogestiti: “La presa di coscienza ha il suo centro nella sessualità e nel corpo segnati dal dominio maschile, che è patriarcale e capitalistico. Cercare se stesse, anche nella storia, è prima di tutto riappropriarsi del corpo: salute e medicina diventano per tante donne il crocevia in cui si affrontano tutte le componenti materiali e ideologiche dell’oppressione e in cui la coscienza di sé può crescere attraverso nuove forme di resistenza ai condizionamenti sociali. Ritrovarsi è recuperare, con l’aiuto reciproco, la capacità di decidere e sapere che sono state negate sia nella gestione degli eventi biologici che nella cura delle patologie piccole e grandi.”30
In un documento del 1974 si legge:
“Abbiamo sempre lasciato la gestione di aspetti fondamentali della nostra vita di donne ai medici. Ora pensiamo di dover cambiare […] L’angoscia è anche conseguenza dell’ignoranza e del proprio corpo e delle sue potenzialità.”31
La consapevolezza della funzione di controllo che ha assunto la medicina nell’era moderna, acquisita dalle donne che hanno messo in gioco la totalità del proprio essere nei gruppi di autocoscienza, è invece mancata nella posizione espressa in generale dalle femministe nei confronti della gestione politica della pandemia.
Si è riscontrato un atteggiamento di delega acritica agli ‘esperti’ e agli apparati istituzionali, nella ricerca di soluzioni puramente tecnologiche, di fronte a una crisi che ha evidenziato problematiche sociali e i limiti di un metodo riduzionista della cura. Si è avallato in tal modo la svalutazione di ogni altra fonte di sapere e di esperienza.
Si è abbandonato il principio di precauzione, accettando la ‘vaccinazione’ mediante l’uso di prodotti genici, non sottoposti alla sperimentazione che le stesse norme correnti avrebbero richiesto (“come si era pronunciata anni fa da FDA, è necessario aspettare decenni per conoscerne a fondo gli effetti collaterali’.”)32
Si è, in altre parole, rinunciato al protagonismo politico che aveva arricchito altre fasi del movimento femminista.
I pochi esempi che ho riportato – anche se insufficienti a mostrare la ricchezza di idee e prassi espressa dal movimento degli anni ’70-’80 – spero che riescano tuttavia a testimoniare la complessità delle analisi compiute all’epoca, mediante le quali le donne che lottavano per la propria liberazione hanno messo in luce i legami tra la violenza subita privatamente, individualmente, e la violenza delle strutture dello stato: nel Campo di pace in Palestina, affrontando il problema della guerra, si discuteva anche di lavoro, scuola, salute, nella ricerca delle radici comuni da cui nascono sia l’oppressione quotidiana, sia l’aggressività militarista. Questa ricerca si è oggi interrotta.
Eppure a me sembra opportuno, non solo per la vicinanza temporale delle due crisi che sono sorte negli ultimi anni, approfondire ciò che l’esperienza della pandemia ha fatto emergere: la gestione della ‘salute’ da parte delle istituzioni nazionali e internazionali – dall’OMS alle ASL – e la gestione dei conflitti militari presentano aspetti comuni, che vanno oltre il livello operativo e mediatico. Non solo, cioè, per il linguaggio usato da scienziati e politici nella ‘lotta’ al virus; per la militarizzazione del territorio durante il lockdown; per la repressione di ogni voce critica, come in uno stato di guerra; per l’esaltazione del sentimento nazionalista (mentre venivano di fatto impedite reali forme di solidarietà e di pietà umana); per l’affidamento a un’autorità militare della ‘campagna’ di vaccinazione.
Tutto ciò consegue dal fatto che il sistema sanitario e gli apparati bellici presentano similitudini soprattutto negli aspetti strutturali.
Primo fra tutti, il metodo scientifico riduzionista e finalizzato al dominio su cui sono basate le tecnologie che si vanno diffondendo sempre più per sostituire l’‘arte’ medica. Molto spesso la stessa tecnologia passa da un settore all’altro, come l’uso delle radiazioni nucleari in medicina o le ricerche di biologia molecolare e di epidemiologia che trovano applicazione nelle armi batteriologiche. Il sistema sanitario, inoltre, condivide con gli apparati bellici la caratteristica di ‘corpo separato’, indipendente dai bisogni sociali. Nel senso che nei fatti ignora le origini complesse della malattia e del disagio e riporta tutto nell’ambito asettico delle ricerche di laboratorio, sostituendo la tecnologia alla ‘cura’. Ad esempio, quali azioni sono promosse per prevenire realmente malattie da inquinamento, da cattiva alimentazione o per impedire le morti sul lavoro?
Ciò richiederebbe una riconversione delle produzioni pericolose, nocive o inquinanti, contraria agli interessi della classe padronale.
Sono ancora attuali le denunce che, in altri tempi, faceva Giulio Maccacaro, pur partendo dalla condizione delle fabbriche – quando parlava di “razionalità asservita quanto più si dichiara oggettiva” che recupera “da questa sanità modi e strumenti per dare una risposta preformata e normalizzante, quindi contenitiva e infine repressiva a una
domanda che nasce da un malessere classificato patologico ma autenticamente esistenziale (sociale).”
E progettava “la nascita e lo sviluppo di forme di governo popolare e di democrazia diretta con particolare riguardo allo specifico socio-sanitario.” Puntualizzando che: “l’autorità cui opponiamo la partecipazione è identificata come quella che […] si pone di fatto quale esecutrice dei comandi di un potere che la sovrasta e che, pagatala con ruoli e privilegi, ne fa lo strumento più insidioso ed efficace del controllo sociale nella forma della medicalizzazione. Per tutto ciò essa pretende: il diritto di un sapere separato, la consegna di un uomo oggettivato, l’esercizio di un insindacabile potere.”
Maccacaro individuava la funzione repressiva delle strutture sanitarie. “[nell’] avanzante tecnicizzazione dell’atto medico fino alla estinzione dei suoi contenuti di rapporto interpersonale;
[nella] diffusione di false o inefficaci pratiche di prevenzione secondaria per deviare la domanda di conversione del modo di produzione; [nell’] attribuzione al medico di nuovi compiti repressivi nei confronti del comportamento infantile, se è un pediatra, del diritto di aborto se è un ostetrico, del rifiuto del lavoro se è un fiscale […], della rivolta alla nocività se è un medico del lavoro, e così via.”
Attraverso cui viene negata “l’affermazione di sé non solo come soggetto di salute ma come soggetto di sanità capace di appropriazione e autogestione della medesima.”33
In tal modo la medicina istituzionale può assumere il controllo dei corpi, attuare la spersonalizzazione dei soggetti assistiti e la privazione della loro autonomia, gerarchizzare le procedure mediche, come avviene nelle strutture militari. Tutto ciò ha radici storiche, come ricorda Joyce Lussu: dall’epoca in cui appaiono gli eserciti di stato, l’istituzione militare “diventa così il modello delle altre istituzioni: la fabbrica come la caserma, la scuola come la caserma, l’ospedale come la caserma…”34
Tale opinione è condivisa dalla giornalista Mona Chollet, in un’opera più recente:
“Come l’esercito, la medicina è un ambito professionale in cui sembrano regnare un’ostilità innata nei confronti delle donne, un culto delle attività virili e un vero e proprio orrore per i comportamenti da femminucce. […]
In modo singolare ancora oggi ritroviamo nella medicina tutti gli aspetti della scienza nata nell’era della caccia alle streghe: lo spirito aggressivo della conquista e l’odio per le donne; la credenza nell’onnipotenza della scienza e di chi la esercita, ma anche nella separazione del corpo e dello spirito e in una fredda razionalità libera da ogni emozione.”35
L’ultimo elemento strutturale che vorrei rilevare (ma questi temi andrebbero approfonditi ed arricchiti) è la filosofia del rischio che, negli ultimi decenni, si è allargata dall’ambito militare ad altri campi di ricerca, compresa la medicina.
Elisabetta Donini sottolinea che:
“Tra le componenti emotive che emergono con maggior forza dai racconti degli scienziati [che avevano partecipato alla realizzazione degli ordigni nucleari del progetto Manhattan] c’è l’esaltazione provata per l’enormità della sfida in cui si sentivano impegnati […] È l’epopea del gusto per il cimento e per il rischio che tante volte è stato celebrato come un atteggiamento distintivo del maschile, dispiegatosi nella storia della nostra specie; strutturandosi in una scansione gerarchica, esso ha portato a privilegiare l’audacia associata alla capacità degli uomini di dare la morte, rispetto e al di sopra della capacità delle donne di dare la vita.”36
La categoria del rischio è entrata a far parte del linguaggio scientifico, nella forma di ‘probabilità’, quando si formularono nuove strutture conoscitive, nell’ambito degli studi dei fenomeni nucleari: in tal caso si operò “una svolta epistemologica che ha portato i primi studiosi di radioattività a sostituire la prospettiva causale con quella statistica. […] Credo infatti – scrive Donini – che in tale reticenza ad andare a fondo nel tentativo di interpretazione dei fenomeni si annidasse un problema molto complesso, di ridefinizione degli spazi delle scelte e delle responsabilità…”
Riferendosi al dibattito, successivo al disastro di Chernobyl, sull’uso del nucleare ‘civile’, l’autrice annota:
“la categoria del caso, costitutiva delle strutture scientifiche che hanno prevalso nella meccanica quantistica su cui quella tecnologia si innesta, è stata trasferita dalle centrali all’intero corpo sociale, portando a descrivere i possibili pericoli in termini di «soglia di rischio» o di «rischio accettabile».”
“La categoria del rischio è stata posta a fondamento di una «filosofia»”; il problema è che “in generale i valori di riferimento rimangono impliciti e si pretende invece di disporre di metodi oggettivi capaci a priori di tenere conto in modo imparziale di qualsiasi fattore.”37
La filosofia del rischio e il metodo statistico sono stati assunti dalla medicina contemporanea (ad esempio nelle analisi «costi/benefici») e sono stati presentati come criteri ‘scientifici’ (e pertanto ‘oggettivi’), per giustificare la somministrazione di ‘vaccini’ che tanti dubbi stanno sollevando per le ricadute a breve e a lunga scadenza sulla salute delle persone.
Anche da parte di scienziati, finora molto cauti, “si comincia a porre attenzione sull’eccesso di morti di quest’anno (no Covid), rispetto agli anni pre-pandemia.”38
Inoltre, la riduzione delle persone a elementi del calcolo statistico produce la perdita di identità delle stesse (non più soggetti di salute e di sanità, come direbbe Maccacaro) con il conseguente scadimento della loro dignità, umana e sociale. È il processo con cui si è voluto dare giustificazione politica e morale all’introduzione del green-pass, uno dei recenti sistemi di controllo adottato dal potere.
Ma un’analisi attenta avrebbe dovuto, già da tempo, far comprendere le interconnessioni tra le varie strutture preposte al controllo e al dominio adottate dalla ‘civiltà moderna’.
Robert Manoff, nell’articolo “I media: sicurezza nucleare contro democrazia”, pubblicato nel gennaio 1984 dal Bulletin of the Atomic Scientist e nel giugno 1984 sulla rivista Scienza Esperienza, scriveva: “[Il regime nucleare] È un sistema che mantiene la «dissuasione» mobilitando la scienza, la tecnologia, l’industria e la politica. […] Il regime nucleare, in altre parole, ha la sua propria struttura epistemologica, il suo proprio dispositivo per acquisire e distribuire conoscenze. Una simile struttura fu delineata dal Progetto Manhattan, rafforzata al tempo del bombardamento di Hiroshima e, da allora in poi, ribadita un anno dopo l’altro.
Il dispositivo di conoscenza strutturato dal regime nucleare ha stabilito che cosa può essere conosciuto e da chi; ha stabilito una definizione della segretezza e dell’accessibilità; ha stabilito una politica dell’informazione e dei media; ha stabilito concettualmente ciò che sono e ciò che non sono la competenza, la conoscenza tecnica, la conoscenza generale […] Questa struttura epistemologica definisce i campi di ricerca e fissa i rapporti tra questi campi e il resto. Stabilisce l’agenda della ricerca scientifica e medica. […] Stabilisce perfino i criteri che debbono servire a definire ciò che può essere considerato un fatto, un’opinione, l’essenza stessa della conoscenza. […] la struttura epistemologica del regime nucleare è incompatibile con la struttura epistemologica della stessa democrazia.”39
Ed è proprio sul piano epistemologico che sono state espresse le più importanti critiche alla scienza e al militarismo da parte del movimento femminista degli anni ’80. Tra le riflessioni, prodotte soprattutto dopo Chernobyl, c’è la denuncia di come “il progresso tecnico si insinua nei tentativi di recupero del corpo, estendendo in modo spregiudicato la sorveglianza e le interferenze su tutta la vita biologica.” Pertanto le donne iniziavano “ad affrontare la cultura dell’onnipotenza, del dominio e del rischio che presiede ai laboratori scientifici e agli impianti ad alta tecnologia, parla[va]no della necessità di scelte etiche, di limiti e di valori diversi da quelli che hanno connotato il progresso tecnico-scientifico, come impresa di genere maschile dal preteso carattere di universalità.”40
Parallelamente, si svolgevano le ricerche sugli effetti dei sistemi bellici sull’ambiente e sulla salute umana della scienziata femminista Rosalie Bertell, ignorate per lungo tempo in Italia.
La Bertell, laureata in matematica, studiosa di biometria, con una “vasta conoscenza nei settori della salute ambientale e occupazionale”, e una intensa attività presso Istituti internazionali, ha, tra le sue attività la guida della ricerca/inchiesta da parte della International Medical Commission – Bhopal e [ha] organizzato l’International Medical Commission – Chernobyl a Vienna nel mese di aprile 1996.
Nel 1996 la Bertell si è impegnata ad aiutare la popolazione delle Filippine che stava cercando di gestire i rifiuti tossici lasciati da US Navy e Air Force nelle basi militari abbandonate.
[…]
Bertell rivela fatti e antefatti circa la guerra del Kosovo e in Iraq: le strette relazioni tra la politica di potenza, specialmente statunitense e gli interessi economici.
[…]
Ha lavorato con preferenza per conto delle popolazioni indigene e dei cittadini colpiti dal militarismo e dall’inquinamento.
[Essa sostiene che:] Inquinamento, disastri ambientali e contributi stanziati per la ricerca militare sono frutto di una visione di valori distorta, in nome della ‘sicurezza’.”41