l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha rimesso in moto una catena di dinamiche potenzialmente devastanti, non solo in tutta l’area mediorientale ma verosimilmente in tutto il mondo.
Come in un flipper, la pallina lanciata dai miliziani palestinesi rimbalza da una Nazione ad un’altra, senza escluderne nessuna, riaccendendo tensioni che parevano sopite se non sepolte dopo gli Accordi di Abramo voluti da Trump.
Quell’intesa, firmata da Israele con Qatar, EAU e Marocco, pareva solo il penultimo passo di Tel Aviv prima di poter raggiungere il risultato storico di stabilire contatti diplomatici con l’Arabia Saudita, ultimo tassello di una strategia che parte dalla pace con Egitto del ’78 e passa da quella con la Giordania nel ’94. A seguito della sua realizzazione, lo Stato israeliano avrebbe avuto dalla sua parte tutte le Nazioni sunnite, Turchia esclusa, e si sarebbe potuto preparare ad una guerra all’Iran con le spalle coperte.
Il primo effetto della rappresaglia dell’IDF su Gaza è stato invece proprio il congelamento del percorso di avvicinamento tra Ryad e Tel Aviv e un contemporaneo aumento della presenza iraniana in tutta l’area. Il saudita Mohammed Bin Salman ha già detto che ulteriori passi sull’accordo non potranno essere portati avanti se Israele non accetterà la soluzione “due popoli, due stati” per la Palestina. La popolazione saudita, per quanto possa contare in una monarchia come quella di Ryad, è d’accordo in larga maggioranza.
La Turchia, che ha rapporti difficili con Israele sin dagli avvenimenti legati alla “Gaza Freedom Flotilla” del 2010, si è espressa più volte contro la rappresaglia israeliana, definendo Hamas un “movimento di liberazione” e minacciando di denunciare Tel Aviv alla Corte Penale Internazionale per Crimini contro l’Umanita, parlando esplicitamente di Genocidio. Nei primi giorni di Gennaio, il governo di Ankara ha fatto arrestare diverse persone con l’accusa di essere spie del Mossad.
Il Libano è in bilico sull’orlo di una nuova guerra come quella del 2006 tra gli sciiti di Hezbollah (appoggiati e armati dall’Iran, ma non solo) e le schermaglie al confine si moltiplicano. Nethanyahu ha già ammonito il capo del “Partito di Dio” a non entrare nell’agone ma Nasrallah, pur prendendo tempo, si è detto pronto ad affrontare Tsahal in qualsiasi momento, forte della vittoria (o non-sconfitta) nella guerra del 2006. Schermaglie al confine israelo-libanese sono in corso sin dai primi giorni del conflitto ed addirittura la missione ONU (UNIFIL) è stata oggetto di attacchi. Un confronto armato diretto tra Hezbollah e Israele avrebbe ricadute molto ampie, e sarebbe prodromico ad una entrata nel conflitto dell’Iran. Ricordiamo che Libano, Siria ed Iran rappresentano quella “Mezzaluna sciita” che è la principale spina nel fianco per le le politiche israeliane in Medioriente. Ovviamente non tutti i libanesi (che sono divisi tra Cristiani, Sunniti e Sciiti) sarebbero d’accordo ad entrare in conflitto con un così potente vicino, memori delle disastrose guerre precedenti, ma l’esercito libanese non è in grado di impedire a Hezbollah di lanciarsi nell’impresa ed è in parte concorde con la volontà degli sciiti di affrontare l’aggressivo vicino e difendere la Nazione. I servizi segreti e l’esercito israeliano hanno già colpito il territorio libanese, assassinando a Beirut uno dei leader di Hamas, Saleh Al-Arouri, tra i fondatori dele brigate Ezzedin al Qassam, braccio militare di Hamas ritenuto autore degli attacchi del 7 Ottobre.
La Giordania, vaso di coccio tra molti vasi di ferro, ha posizionato il proprio esercito al confine con la West Bank, ammonendo il Governo di Tel Aviv dal perseguire qualsiasi piano atto a spingere i palestinesi verso il suo territorio. Il ministro degli esteri giordano ha avvertito che qualsiasi violazione metterebbe a rischio l’accordo di pace attualmente in vigore con Israele. La folta presenza di profughi palestinesi sul suo territorio rischia inoltre di trasformarsi in un elemento di instabilità per il Regno.
L’Egitto è una delle Nazioni più coinvolte nella situazione di crisi, non solo perchè il suo territorio confina direttamente con la Striscia di Gaza ed il valico di Rafah ne rappresenta l’interfaccia principale, ma anche perchè alcuni esponenti israeliani si sono spinti a proporre di “esiliare” gli abitanti della Striscia verso il Sinai, creando tendopoli per ospitarli. Va da sè che sarebbe l’Egitto a doversi fare carico di questa massa di profughi e a sostenenrne la pressione e ovviamente il governo cairota si oppone a questa soluzione. L’Egitto è anche parte di quel gruppo di governi, insieme a Qatar e Stati Uniti, che si pone come mediatore nelle trattative tra Hamas e Israele per il rilascio degli ostaggi, per raggiungere momenti di tregua o per tentare di porre fine al conflitto.
Lo Yemen è il vero elemento di sorpresa del conflitto; lo scontro tra la minoranza Houthi (sciita) e l’Arabia Saudita (Sunnita e Wahhabita) che durava da 5 anni si è trasformato in
un nuovo fronte, distante ma collegato, dei combattimenti tra Hamas e l’IDF. Grazie al loro controllo dello stretto di Bab El-Mandeb, all’imbocco del Mar Rosso, ogni nave diretta verso Suez o Eilat è stata presa di mira dai missili delle milizie Houthi, costringendo gli USA, la Gran Bretagna e, presto, anche l’Europa a dover inviare navi militari per proteggere i traffici commerciali. Questa pressione ha costretto le maggiori compagnie di spedizioni occidentali (ma non quelle russe o cinesi) a dover scegliere una rotta alternativa che circumnaviga l’Africa, allungando i tempi del tragitto e con essi il costo delle merci trasportate. Il costo del nolo di navi e container è raddoppiato dall’inizio del conflitto, così come l’onere assicurativo per i vascelli.
Anche la Siria e l’Iraq sono tornate nella partita, a causa della presenza delle basi americane sul loro territorio e degli attachi che stanno subendo ormai quotidianamente da parte delle milizie filo-sciite irachene se non direttamente dalle squadre dei Guardiani della Rivoluzione iraniani (Pasdaran).
La presenza americana in Siria non è stata approvata da nessuna risoluzione ONU e non è pertanto legale, sotto il profilo del diritto internazionale, e il governo americano sta addirittura pensando di ritirarsi considerato l’elevato numero di morti e feriti causati dagli attacchi. Se infatti quelle basi sono funzionali all’accerchiamento strategico dell’Iran, è anche vero che esse rappresentano un punto debole poichè esposte contemporaneamente alle minacce iraniane, siriane e dei residui militanti dell’ISIS.
L’Iran è il vero “elefante nella stanza” di questa situazione poichè, sebbene non si possa accusare direttamente per quanto sta accadendo in tutta l’area, è innegabile che abbia un peso non marginale. Sapendo di essere il bersaglio principale a cui puntano sia Israele sia gli USA (questi ultimi in realtà piuttosto riluttanti dall’entrare in un conflitto diretto con i persiani), l’Iran sta presumibilmente armando e fornendo supporto logistico a tutti gli attori che si oppongono a Tel Aviv: Hezbollah, Houthi, milizie irachene e Hamas stanno beneficiando delle competenze e delle armi fornite da Teheran, con mutuo guadagno. Tel Aviv ha già risposto alle azioni iraniane non solo colpendo le brigate Al-Quds dell’IRGC in Siria ma soprattutto assassinando il generale dei Pasdaran, Musavi, proprio durante un attacco su Damasco.
Nel suo vagare da Nazione a Nazione, la pallina di questo flipper ha colpito anche l’Ucraina, portando ad un raffreddamento dell’interesse americano in questo scenario e la conseguente riduzione dei fondi destinati a Kiev per gli armamenti. L’onere rischia di restare in capo alla sola Europa, che però inizia a mostrare crepe nella sua unità, in particolare ad opera di Ungheria e Slovacchia, non disposte a continuare ad inviare miliardi di Euro ad libitum.
Ovviamente Israele, Gaza e la Cisgiordania sono il punto in cui il flipper rischia il tilt: Il governo Nethanyahu è preso tra due fuochi, stretto tra Hamas all’esterno e la rabbia dei familiari degli ostaggi all ‘interno. La popolarità del leader del Likud è in caduta libera, i contrasti con la Casa Bianca sono quotidiani e l’insoddisfazione di Biden è ormai chiara. Anche l’Unione Europea, per bocca del suo Alto Rappresentante per la Politica Estera Borrell, si è chiesto “quando troppi morti a Gaza saranno troppi” alludendo al tragicamente elevato numero di vittime dei bombardamenti israeliani, giunto ormai a quasi 25000 persone (per la maggior parte donne e bambini). Bibi non ascolta nessuno e vuole tirare dritto “sino alla completa vittoria” e all’eliminazione totale di Hamas, compito che al momento non pare raggiungibile. L’estensione dei tunnel sotto la Striscia si rivela di giorno in giorno sempre maggiore e, per stessa ammissione dell’IDF, non sarà possibile distruggerli in toto.
Ad Oggi non è chiaro quanti miliziani di Hamas siano stati uccisi dall’IDF, che da par suo dice siano almeno 9000 (un terzo dei morti totali), nè si può essere certi delle cifre sui soldati israeliani uccisi durante le operazioni che, sempre secondo l’esercito israeliano sarebbero circa 220, di cui parecchi uccisi da “fuoco amico”. Almeno 24 di essi sono morti il 23 gennaio sepolti dal crollo di una palazzina che stavano minando e colpita da un razzo sparato dai palestinesi. I numeri reali forse non si sapranno mai coperti, come accade per la guerra in Ucraina, dal segreto militare da ambo le parti. Il numero di miliziani di Hamas, stimato prima del 7 Ottobre, era di 30000 (ma forse di più), dotati di armi in quantità non nota ma sicuramente elevata, considerando la strenua resistenza e l’elevato numero di blindati israeliani distrutti.
La soluzione “due Popoli, due Stati” è tornata prepotentemente in auge in tutte le cancellerie mondiali ed è ora vista come l’unica soluzione accettabile per porre fine ad un conflitto continuo che dura ormai da 75 anni. Inutile dire che la destra israeliana non ha alcuna intenzione di cedere e diversi suoi esponenti (tra i quali anche ministri) hanno proposto soluzioni, irrealizzabili e comunque fuori da qualsiasi norma internazionale, per evitare ciò, arrivando a proporre la “deportazione” dell’intera popolazione di Gaza in nazioni africane o addirittura su un’isola da creare appositamente al largo delle coste della Striscia (spacciandola peraltro come un’operazione “umanitaria”).
Gli Stati Uniti sono, in qualità di egemoni, coinvolti su tutti gli scenari contemporaneamente ed i costi, umani e finanziari, di questo impegno si stanno facendo sempre più elevati
(oltre ai quasi 100 miliardi di $ già stanziati per l’Ucraina, i costi affrontati per la crisi di Gaza si stanno rapidamente avvicinando ai 2 miliardi).
Non è però questo l’aspetto che pare preoccupare di più Washington, quanto la perdita di prestigio a livello mondiale che gli USA stanno subendo: l’appoggio incondizionato e la fornitura di armi ad Israele sta minando la loro presunta posizione di terzietà in Medioriente, la riprovazione per l’elevato numero di morti civili sta creando problemi sia all’estero che all’interno, con una vasta porzione di cittadini americani, in particolar modo giovani secondo una ricerca svolta dall’Università di Harvard, che non ritengono accettabile il massacro che si sta compiendo a Gaza. Anche all’interno dell’Establishment americano, la guerra di Gaza sta creando forti divisioni, con una parte, i cosiddetti Neo-Con, decisi a supportare Tel Aviv “senza se e senza ma” ed un altra, ben conscia che questa crisi stia portando ad una perdita di influenza americana sia in MO che nel resto del Mondo.
Russia e Cina stanno alla finestra a guardare, con i secondi addirittura visti dagli USA come un possibile attore che possa aiutare a stemperare la crisi, almeno nell’area yemenita (nota: l’unica base estera cinese si trova a Djibuti, che è sulla sponda diametralmente opposta a quella yemenita sullo stretto di Bab Al-Mandab). Gli Houthi hanno chiarito che nessuna nave russa o cinese sarà oggetto di attacchi, e la situazione attuale sta creando problemi economici crescenti a tutte le nazioni europee, facendo il gioco di Mosca che rilancia le sue proposte di rotte alternative tra Asia ed Europa, come quella Artica (vedi approfondimento qui).
In definitiva, la pallina continua a correre e a colpire tutto ciò che incontra, facendo salire lo “score” del flipper in termini di vite umane, costi economici, riallineamento degli assetti internazionali e, probabilmente anche per quanto concerne i risultati elettorali di questo 2024 in cui 50 Nazioni andranno al voto per rinnovare i propri governi (e non-governi, come nel caso dell’UE).
Ogni giocatore di flipper sa che agitarlo può portare ad ottenere un punteggio più elevato, ma è anche conscio che basta un piccolo movimento inconsulto per provocare il Tilt che metterà fine alla partita. Il popolare gioco da bar è stato inventato dagli americani nel ’47 e sicuramente essi ne conoscono il funzionamento e le regole.
Il mondo, raccolto attorno ad essi, come i giovani nei bar degli anni ’70 facevano attorno al campione del quartiere, assiste in trepidante attesa, non sapendo se sperare che il punteggio aumenti fino al record o si verifichi il colpo letale che mette fine alla partita.
Sicuramente in Palestina sperano che ad un certo punto manchi l’elettricità e la partita finisca, anche senza un vincitore ma con la possibilità che il gioco si rompa definitivamente e non funzioni più, cosi da relegarlo ad oggetto di “modernariato” di cui parlare solo come di un lontano ricordo.