Ci eravamo lasciati, alla fine dello scorso anno, con una legge di bilancio che mutilava il reddito di cittadinanza per il 2023 e disponeva il suo definitivo abbandono a partire dal 2024, promettendo una nuova forma di sostegno al reddito per le famiglie in difficoltà.
Le premesse a questa nuova misura non lasciavano ben sperare. Durante tutta la scorsa legislatura, i partiti che compongono il governo Meloni non avevano risparmiato le critiche al reddito di cittadinanza. Anche la Lega che pure, per opportunismo, aveva votato a favore dell’istituzione del RdC quando Salvini era vicepresidente del Consiglio nel primo governo Conte, ha successivamente ripudiato tale misura.
Siamo così arrivati a marzo ed ecco la proposta del governo: la MIA (Misura d’Inclusione Attiva), destinata a sostituire il RdC. Ma di cosa si tratta? È presto detto: la MIA è un surrogato di RdC, un surrogato che depotenzia in maniera decisiva quanto di buono c’era in quest’ultimo, calcando la mano sulla criminalizzazione della povertà e sposando in pieno la visione di quell’ampia parte di padronato che ha sempre visto il RdC come fumo negli occhi. Ma andiamo a vedere in cosa consiste la MIA e in cosa si differenzia dal RdC nella sua versione iniziale, tenendo ben presente il fatto che, al momento, la MIA è una misura solamente abbozzata, ma non ci sono documenti ufficiali come una bozza di decreto-legge.
Il primo aspetto che caratterizza la MIA è che elementi come la durata e l’importo del beneficio dipendono dalla classificazione dei soggetti percettori. La distinzione rilevante è quella tra “occupabili” e “non occupabili”. Sono considerate occupabili le famiglie in cui non ci siano minorenni, disabili o ultrasessantenni. Sono considerate non occupabili, viceversa, le famiglie in cui ci sia almeno un soggetto di età pari o superiore a 60 anni, un minorenne o un disabile.
In primo luogo, la classificazione influisce sulla durata del sussidio. Prima della riforma della legge di bilancio 2023, i percettori del RdC avevano diritto al beneficio per 18 mesi, dopodiché scattava la necessità di procedere al rinnovo, rispetto al quale doveva passare almeno un mese. Adesso, per i non occupabili che hanno fatto domanda per la prima volta non cambia nulla, mentre in caso di rinnovo la durata scende a 12 mesi. Se a prima vista questo può apparire come un peggioramento marginale rispetto alla situazione precedente all’introduzione della MIA, è comunque rivelatore della natura intima del provvedimento: in barba a tutta la retorica sui fannulloni che prendevano il reddito di cittadinanza per stare sul divano, il Governo Meloni qui passa direttamente a fare cassa sulla pelle dei non occupabili, coloro cioè che per definizione non possono trovare un lavoro, ma che si trovano comunque a dover fare i conti con un inasprimento delle condizioni alle quali trovare una forma minima di sostentamento.
Nel caso degli occupabili, invece, la durata del sussidio per chi lo richiede la prima volta sarà di 12 mesi, a fronte dei 18 mesi che garantiva il RdC. Passato questo primo anno, è possibile avere un rinnovo di 6 mesi, cioè 12 mesi in meno rispetto allo scenario precedente l’intervento dell’esecutivo Meloni. Dopo tale rinnovo, però, sarà necessario aspettare almeno 18 mesi. Un anno e mezzo in cui “darsi da fare” per trovare un impiego, cioè presentarsi sul mercato del lavoro senza nessuna tutela e in piena stagnazione economica a cercare una qualche maniera per non morire di fame.
Quanto all’importo massimo, si ricorderà che per il RdC era previsto un sussidio pari a massimo 500 euro per una famiglia composta da una sola persona. Nel caso di famiglie composte da più persone, tale valore era da moltiplicare per una scala di equivalenza rappresentativa della numerosità e di altre caratteristiche del nucleo. In più, per le famiglie in affitto era possibile ottenere fino a 280 euro al mese come contributo per il pagamento dell’affitto. Con la MIA, l’importo massimo resta pari a 500 euro al mese per i non occupabili, mentre scende a 375 euro per le famiglie composte solo da occupabili. Nulla ancora è stato detto sul futuro del contributo all’affitto.
Quanto ai requisiti, se prima era necessario un valore dell’ISEE non superiore a 9360 euro, con la MIA questo valore scende a 7200 euro.
Infine, e qui l’unico aspetto positivo, il requisito di residenza in Italia si riduce da 10 a 5 anni. Una modifica che sembrerebbe in controtendenza rispetto a quanto fin qui elencato e insolito, viste le posizioni dei partiti di governo sull’immigrazione e che si spiega con il tentativo di evitare nuovi guai con l’Unione europea, che considera discriminatorio il requisito di 10 anni previsto per il RdC.
La riforma del sostegno al reddito in salsa meloniana è ancora da definire nei dettagli, ma gli aspetti che sono stati fatti trapelare ci aiutano a mettere in evidenza l’ideologia di questo governo del tutto appiattito verso gli interessi dei padroni, cui offrire lo scalpo di una classe lavoratrice ulteriormente indebolita e quindi meno in grado di resistere al ricatto di salari da fame e condizioni di lavoro disagevoli.
Allo stesso tempo, spicca in maniera lampante la determinazione del Governo di raschiare dal fondo del barile fino all’ultima briciola – con l’abolizione del RdC e l’introduzione della MIA si risparmia infatti una manciata di miliardi – pur di rispettare fino all’ultimo centesimo le regole di bilancio improntate all’austerità dell’UE, nonostante le dichiarazioni bellicose dell’epoca in cui i suoi esponenti erano all’opposizione.
Il RdC, va detto ancora una volta, è (era) chiaramente una misura insufficiente, piena di aspetti negativi o apertamente disgustosi. Ciononostante, e forse anche andando ben al di là delle intenzioni dei proponenti, il “reddito” aveva contribuito non solo a mitigare le conseguenze della povertà delle famiglie con disoccupati, sottoccupati e lavoratori pagati una miseria, ma anche, e soprattutto, a sostenere, seppur marginalmente, il potere contrattuale dei lavoratori.
Abbiamo già detto, infatti, che il RdC, così come la gran parte delle misure di reddito minimo garantito, costituisce un punto di forza per i lavoratori nel momento della contrattazione della retribuzione. Un lavoratore che può contare su tale misura può permettersi di rifiutare lavori con retribuzioni misere ed umilianti, proprio in virtù dell’esistenza del sostegno al reddito. Un elemento, questo, che è ben misero rispetto al progressivo indebolimento dei lavoratori generato da decenni di riforme del mercato del lavoro, ma che non a caso è stato oggetto del bombardamento mediatico al servizio dei padroni, seguendo un canovaccio (quello dei lavoratori svogliati e “divanisti”) non dissimile dall’evergreen in base al quale “i giovani non hanno voglia di lavorare”. Il governo Meloni, da solerte esecutore dei desiderata di quell’ampia parte di padroni che non hanno mai visto di buon occhio il RdC, lo demolisce e lo rende una misura ancora più misera, una vera e propria elemosina.
Inoltre, obiettivo del governo è anche quello di reperire risorse nel quadro delle regole di bilancio europee. Una miseria, secondo le prime stime, pari a 2 o 3 miliardi l’anno. Risorse da destinare ad altri usi, in ossequio alla logica della scarsità delle risorse che è alla base (e, contemporaneamente, è conseguenza) di quelli che una volta gli esponenti della maggioranza chiamavano “diktat” dell’UE. Adesso che sono al governo, però, Meloni, Salvini e i loro sgherri non perdono occasione per genuflettersi alle istituzioni europee, in primo luogo aderendo incondizionatamente alle regole di bilancio.
Il gioco del governo Meloni è chiaro: mettere lavoratori contro lavoratori, poveri contro poveri, sfruttati contro sfruttati, riproponendo il mantra del sussidio buono e del sussidio cattivo. Un gioco al quale non vogliamo giocare e che dobbiamo respingere con tutta la forza che abbiamo.