Sui mass media si è dato molto risalto alle dichiarazioni di Trump secondo le quali gli Usa avrebbero portato i dazi sull’import dalla Cina al 60%. Pochi, però, hanno ricordato che già Biden aveva alzato i dazi per tutta una serie di prodotti, quadruplicandoli per le auto elettriche (102,5%), e aumentandoli notevolmente per le batterie al litio (25%), e per i chip e i pannelli solari (50%). Di fatto, quindi, siamo in piena guerra commerciale tra Usa e Cina. Ma la guerra commerciale è solo un aspetto della guerra economica che coinvolge non solo Usa e Cina, ma anche altri paesi tra cui quelli che appartengono ai Brics+, a partire dalla Russia e dall’Iran, colpiti dalle sanzioni Usa. Un aspetto di questa guerra, persino più importante dei dazi, ruota attorno alla cosiddetta dedollarizzazione.
La dedollarizzazione è il processo attraverso il quale la valuta statunitense, il dollaro, viene scalzata dal suo ruolo di moneta di riserva e con la quale avvengono gli scambi di merci a livello internazionale. Infatti, fino ad oggi, ogni compratore che voglia acquistare sul mercato internazionale delle merci quotate in dollari deve aprire un conto presso una banca statunitense, la correspondent bank, per procurarsi dollari. Così facendo, però, il compratore in questione si sottomette alla legislazione statunitense e, quindi, al controllo del governo americano. Per questa ragione il dollaro è anche una importante arma di guerra da parte degli Usa che lo impiegano per sanzionare, bloccandone le transazioni commerciali, i paesi con cui hanno contenziosi politici aperti.
A proposito di dedollarizzazione poca attenzione è stata riservata ad un evento recente che ci fa capire quanto lo scontro sul dollaro tra Usa e altri paesi, a partire dalla Cina, sia acuto: la Banca dei regolamenti internazionali (Bri), un organismo internazionale che raccoglie diverse banche centrali mondiali, ha abbandonato il progetto noto come mBridge, che consiste nella creazione di un sistema finanziario alternativo al dollaro basato sull’utilizzo della tecnologia blockchain. Questa tecnologia, che nasce dopo la crisi finanziaria del 2008, permette di effettuare intermediazioni di varia natura senza alcun controllo centrale, ad esempio di banche o istituzioni finanziarie. MBridge è partito nel 2021 all’interno del Bri, ma il vero motore dell’iniziativa è stato la Cina, sostenuta da Hong Kong, Thailandia e Emirati arabi. A giugno scorso, inoltre, è avvenuto un fatto di grande importanza: l’adesione a mBridge dell’Arabia Saudita.
L’importanza di questo fatto risulta ancora più chiara se consideriamo che l’Arabia Saudita, il secondo produttore mondiale di petrolio con le maggiori riserve accertate, negli stessi giorni ha annunciato di non voler rinnovare l’accordo attivo dal 1974 per utilizzare soltanto dollari nelle vendite di petrolio. Del resto, l’Arabia Saudita esporta il 20% del suo petrolio in Cina, che è diventata il suo principale cliente. Inoltre, l’Arabia Saudita, con i buoni uffici della Cina, si è riappacificata con l’Iran, suo maggiore competitor nell’area, e ha partecipato, come nazione invitata, al recente vertice dei Brics+ a Kazan. Il rifiuto di vendere petrolio in dollari è un fatto di notevole importanza perché il dollaro ricopre il ruolo di valuta di riserva mondiale in quanto viene utilizzato negli scambi internazionali delle materie prime più importanti, a partire dal petrolio. Quindi, la decisione saudita può contribuire a mettere a rischio il ruolo di valuta mondiale del dollaro e rappresenta uno smacco geopolitico per gli Usa che avevano basato il controllo del Medio Oriente, l’area mondiale con le maggiori riserve petrolifere, anche sull’alleanza con la monarchia saudita.
Ma ritorniamo alla decisione della Bri. Per capire la ragione dell’uscita della Bri da mBridge dobbiamo rifarci alle seguenti dichiarazioni del messicano Augustin Carstens, direttore generale della Bri: “MBridge non è stato creato per soddisfare le esigenze dei Brics…la Bri non opera con alcun Paese, né i suoi prodotti possono essere utilizzati da alcun paese soggetto a sanzioni. Tutti i membri della banca centrale sono dell’idea che dobbiamo essere attenti alle sanzioni e che qualsiasi prodotto da noi creato non deve essere un canale per violare le sanzioni”[i]. Non è molto difficile ipotizzare che l’inattesa uscita della Bri da mBridge sia dovuta alla pressione del governo e della banca centrale statunitensi, preoccupati per la tenuta del dollaro e per l’attivismo dei Brics sulle piattaforme di intermediazione commerciale.
In ogni caso, l’uscita della Bri dal progetto non fermerà la Cina che potrà utilizzare la tecnologia del progetto mBridge senza l’aiuto e la supervisione delle banche centrali all’interno della Bri. Attraverso mBridge la Cina può usare la blockchain per le transazioni transfrontaliere scambiando la valuta digitale cinese con altri Paesi. In tal modo, la Cina può rendersi indipendente dal dollaro e, in particolare, dall’intermediazione delle correspondent banks, che, insieme al sistema di messaggistica Swift, sono lo strumento con cui gli Usa impongono le sanzioni. Il sistema mBridge può risultare appetibile a molti Paesi che sono al di fuori dell’”Occidente collettivo”, e che temono le iniziative sanzionatorie degli Usa e dei loro alleati, o che le hanno già subite, come la Russia. In particolare, il sequestro da parte degli Usa degli asset finanziari in dollari della Russia e di altri Paesi ha messo sull’avviso parecchi governi del Sud globale, spingendoli a cercare alternative al dollaro.
Alla vicenda di mBridge va aggiunto quanto uscito dall’ultimo vertice dei Brics+ di Kazan. La novità più importante è la decisione di impiegare le valute nazionali nelle transazioni tra i Paesi Brics+ che saranno effettuate attraverso i rispettivi sistemi bancari su una piattaforma autonoma rispetto allo Swift, che è un sistema di messaggistica relativo ai pagamenti internazionali, controllato dagli Usa. Si è, invece, ancora lontani da una valuta dei Brics, anche se Putin ha mostrato a Kazan una banconota di una nuova valuta che prenderebbe il nome di R5, dalle iniziali delle valute dei Paesi fondatori (reais, rublo, rupia, renmimbi e rand). In ogni caso, una eventuale valuta dei Brics non sarebbe ispirata all’esempio dell’euro, visti anche i risultati non eclatanti e i gravi squilibri interni all’area creati dalla moneta unica.
In generale, anche se per Cina e Brics non sarà facile avviare un nuovo sistema basato su valute non appetibili come il dollaro sui mercati internazionali, per gli Usa tale sistema rappresenta un notevole pericolo. Infatti, non bisogna dimenticare che gli Usa vivono parassitariamente sul dollaro, in quanto detenere la moneta di riserva e di scambio internazionale gli permette di finanziare i consumi interni e l’intera loro economia, in particolare il loro enorme doppio debito, quello commerciale e quello statale. Grazie alla necessità di molti Paesi, specie quelli emergenti e periferici, di avere riserve in dollari, gli Usa riescono a collocare facilmente i propri titoli di Stato. La situazione del debito statunitense, però, sta peggiorando negli ultimi anni, rendendone più difficile la gestione. Il debito pubblico tra 2020 e il 2024 è cresciuto da 27.700 miliardi di dollari a 35mila miliardi[ii], mentre quello commerciale è passato da 981,9 miliardi del 2020 a 1.151,8 miliardi del 2023[iii].
Quindi, per Trump si prospetta un’altra sfida ben più importante che introdurre nuovi dazi sulle merci importate dalla Cina e dalla Ue: difendere il ruolo mondiale del dollaro. Infatti, è molto improbabile che i dazi sulle importazioni stimolino la ripresa della produzione domestica, rendendo di nuovo gli Usa quello che non sono più da tempo, cioè una potenza industriale e manifatturiera. Per questa ragione il dollaro mantiene tutta la sua importanza se gli Usa vogliono continuare a mantenere il loro livello di consumi e la loro posizione di egemonia economica e geopolitica.