Il 12 marzo 2024, secondo alcuni, può essere visto come data storica: in tale giornata l’NHS, ovvero il sistema sanitario nazionale del Regno Unito, ha annunciato lo stop alla somministrazione di bloccanti della pubertà ai minori presso le cliniche ad esso appartenenti che si occupano di identità di genere [1].
La decisione sembra annunciare un’agognata svolta nella contorta questione dei “minori transgender”: finalmente la massima istituzione in campo sanitario di uno dei Paesi leader dell’Occidente ha riconosciuto che il trattamento di adolescenti o addirittura bambini affetti da disforia di genere con bloccanti ormonali è una pratica che non poggia affatto su prove valide e sufficienti in termini di efficacia e sicurezza. Tale approccio, indicato a volte come “protocollo olandese” in quanto fu uno studio del 2011 condotto in Olanda a gettarne le fondamenta, è entrato negli anni a fare parte delle linee guida emanate dalla World Professional Association for Transgender Health (WPATH, ossia la principale istituzione di riferimento globale nel campo della salute delle persone transgender) e rispettate da gran parte del mondo occidentale [2].
Il 28 marzo, di conseguenza, è stato chiuso il GIDS (Gender Identity Development Service), l’unico ma fondamentale istituto del sistema sanitario nazionale inglese dedicato alla cosiddetta “medicina di genere” e situato all’interno del Tavistock Centre di Londra [3].
Nei prossimi mesi è invece prevista l’apertura di due nuovi centri nazionali per il trattamento delle disforie di genere, all’interno dei quali vigeranno approcci radicalmente differenti e molto meno medicalizzanti e “affermativi” rispetto al modello finora in voga al GIDS.
Per scongiurare entusiastici fraintendimenti, va qui puntualizzato che la sentenza dell’NHS si applica soltanto al settore della salute pubblica: alle cliniche private, dunque, non è stato imposto alcun freno. In seconda istanza, essa continua a consentire la somministrazione dei farmaci in questione a pazienti minorenni in sede di ricerca clinica o in casi definiti “eccezionali”.
Sebbene dunque la decisione del NHS non determini una messa al bando tout court dei controversi trattamenti ormonali, chi ha a cuore il tema ritiene che la decisione delle autorità inglesi rivesta comunque una notevole importanza: grazie a essa, difatti, è stato finalmente messo nero su bianco il carattere pseudoscientifico e anti-etico delle frontiere più spregiudicate della medicina di genere.
La “Cass Review” e le denunce dei whistleblower
Lo stop decretato dal Regno Unito non emerge dal nulla, bensì deriva da una serie di fatti e indagini in corso da quasi quattro anni su cui vale la pena soffermarsi.
Alla fine del 2020, dinnanzi al vertiginoso aumento del numero di minori che si sono rivolti al GIDS per chiedere aiuto, inferiore a 500 all’anno nel periodo 2011-2014 e salito a 2.700 richieste accolte e 4.600 in lista d’attesa fra il 2019 e il 2020, l’NHS comincia a interessarsi al fenomeno e ne chiede un dettagliato monitoraggio.
Viene dunque commissionata una revisione indipendente dei servizi forniti dall’istituto alla dottoressa Hilary Cass, pediatra specializzata in casi di disabilità ed ex-presidente del Royal College of Paediatrics and Child Health. Il lavoro d’inchiesta, conosciuto come “The Cass Review”, viene pubblicato nel febbraio del 2022: si tratta di un report di oltre cento pagine atto a verificare se gli standard di cura offerti a bambini e adolescenti affetti da disturbi dell’identità di genere siano realmente “sicuri, olistici ed efficaci” [4].
Le conclusioni del documento criticano fortemente il modello “affermativo” in voga al GIDS e il suo ricorso ai bloccanti ormonali, evidenziandone la mancanza di solide fondamenta scientifiche e il carattere estremamente medicalizzante.
Contrariamente alla narrazione ufficiale, secondo cui essi servono a “mettere in pausa” lo sviluppo puberale al fine di lasciare più tempo ai giovani “pazienti” per decidere le sorti del proprio sesso biologico, i risultati degli studi condotti in merito dimostrano che il 96,5-98% dei minori sottoposti al trattamento prosegue con lo step medico successivo, ossia l’assunzione di ormoni specifici del sesso opposto – i cui ben noti rischi a lungo termine per la salute sono cancro, problemi cardiovascolari, osteoporosi e alterazioni della fertilità.
Nei fatti, dunque, i bloccanti della pubertà “vincolerebbero bambini e adolescenti ad un percorso di trattamento che culmina negli ormoni mascolinizzanti o femminilizzanti, impedendo l’usuale processo di sviluppo dell’identità di genere”, evidenzia il report [5]. Ciò rende necessaria non solo una comprensione degli effetti dei bloccanti della pubertà, ma anche delle implicazioni dell’intero percorso medico e chirurgico di transizione di genere, cosa che è indubbiamente fuori dalla portata di un adolescente di 13 anni o ancor meno anche secondo la legge britannica [6].
I dubbi sul loro impiego riguardano anche il vasto spettro di effetti collaterali (stanchezza, mal di testa, scalmane, rapide perdite di peso, ansia, umore basso), un insieme di condizioni ben lontano dall’alleviare la tormentata condizione emotiva di un adolescente disforico o dal “proteggerlo dal rischio di suicidio o autolesionismo” – beneficio, quest’ultimo, usualmente millantato e quasi usato come “ricatto morale” dai fervidi sostenitori del trattamento.
Inoltre, scrive la dottoressa Cass, l’impatto che tali farmaci potrebbero avere sul normale sviluppo cognitivo e cerebrale che avviene durante l’adolescenza è ancora sconosciuto.
Il report cita in seguito altri aspetti controversi emersi dalle osservazioni del servizio fornito al GIDS. Uno di questi riguarda i disaccordi fra il personale medico in merito alle cause e all’evoluzione nel tempo dei disturbi dell’identità di genere, che si traducono in divergenze fra chi adotta il metodo “gender-affirming” e coloro che prediligono un approccio più cauto ed esplorativo. Stando alle testimonianze raccolte, questi ultimi non si sentono supportati dal loro ordine professionale, vanno incontro a difficoltà nel momento in cui esprimono preoccupazioni o dubbi sulla questione e sentono di doversi opporre a pressioni in favore dell’approccio affermativo; non a caso, nel tempo, diversi di loro hanno abbandonato l’istituto [7].
Tali attriti si riflettono ancor di più nel rapporto con i minorenni e le loro famiglie. Non solo non viene fornita loro un’informazione sufficientemente equilibrata e completa per prendere una decisione consapevole (una revisione dell’Istituto Nazionale inglese per l’Eccellenza Clinica, ad esempio, ha evidenziato la bassa qualità dei dati sugli effetti a lungo termine della transizione in termini di soddisfazione e salute mentale), ma spesso e volentieri le diagnosi effettuate dai “professionisti” del settore sono affrettate e ignorano la complessità di svariate situazioni. Un terzo dei minori che si rivolgono alla clinica, infatti, è affetto da autismo o da altre neurodivergenze: fattori che rischiano di finire in secondo piano o di essere erroneamente identificati come segni di disforia senza gli ulteriori e necessari approfondimenti del caso.
Tutti i fatti esposti dalla Cass Review non hanno fatto altro che approfondire e confermare diverse testimonianze emerse negli anni precedenti grazie ad alcuni membri del personale del servizio preoccupati dalla piega che esso stava prendendo. Fra questi va citato David Bell, stimato psichiatra impiegato nei servizi per adulti transgender della Tavistock da oltre vent’anni, il quale nel 2018 fu interpellato da un gruppo di dieci professionisti del GIDS, già vittime di intimidazioni professionali, e messo al corrente su quanto accadeva nel loro reparto.
Bell, dunque, stilò e consegnò al Consiglio di amministrazione della clinica un documento alquanto critico che presentava le scioccanti evidenze apprese: mancanza di protocolli comuni, trattamento sbrigativo degli ormai numerosissimi casi (talvolta i bloccanti venivano prescritti solo dopo una o due sessioni d’incontro!), accuse di transfobia verso chi esprimeva dubbi su tale approccio e pressioni da parte di gruppi di attivismo transgender sull’operato del centro.
Pressoché tutti i membri al vertice del Tavistock Centre, però, respinsero le istanze contenute nel suo report e trattarono Bell come uno sgradito whistleblower: nel 2020 furono intentati provvedimenti disciplinari nei suoi confronti, finché l’anno successivo lo psichiatra diede le proprie dimissioni [8].
Tale mole di testimonianze, analisi e prove oggettive dimostra senza grossi dubbi l’urgenza e la necessità della decisione presa un mese fa dall’NHS. Lo stop ai bloccanti ormonali sembra il primo passo verso un cambio generale d’approccio alla delicata questione dei minori disforici che si spera venga effettivamente messo in atto nel Regno Unito e non solo.
La situazione negli altri Paesi occidentali
Sebbene sia decisamente significativo a livello di visibilità e di impatto sul mondo scientifico, quello della Gran Bretagna non è il primo dietrofront avvenuto in tempi recenti e forse non sarà neppure l’ultimo. Durante gli ultimi quattro anni, anche altri Paesi hanno infatti imposto un veto alla somministrazione dei farmaci bloccanti. Fra essi vi sono ben sedici stati federali degli Stati Uniti (diversi dei quali sono storicamente di tendenze conservatrici) [9], ma anche nomi molto più sorprendenti come Finlandia, Svezia e Norvegia, nazioni nordeuropee dalla nota reputazione progressista e sempre all’avanguardia nel campo dei “diritti civili”.
La prima a mettere in discussione le linee guida per il trattamento dei minori disforici emanate dalla WPATH è stata proprio la Finlandia, che a suo tempo fu uno dei Paesi pionieri nell’applicazione del modello. Nel giugno del 2020 un gruppo di esperti del COHERE, organizzazione affine al ministero della salute, ha concluso che l’intervento farmacologico vada riservato ai soli casi in cui “identità e sviluppo della personalità appaiono stabili”, dando assoluta priorità al supporto psicologico e lasciando agli adolescenti tutto il tempo necessario per crescere ed esplorare la propria identità senza pressioni.
A tal riguardo si è espressa la dottoressa Riittakerttu Kaltiala, primario del reparto di psichiatria adolescenziale al policlinico universitario di Tampere, rivelando che l’80% dei bambini da lei osservati che tendevano a identificarsi con il sesso opposto finivano per abbandonare spontaneamente tale propensione nel corso dell’adolescenza. L’esperta, che già dal 2015 cerca di mettere in discussione l’approccio affermativo, ha anche smentito l’affermazione secondo cui i trattamenti ormonali mitigherebbero l’alto rischio di suicidio nelle persone transgender: due studi effettuati in Svezia e Finlandia hanno infatti rilevato un aumento del tasso di suicidio negli adulti che hanno affrontato la transizione e un generale peggioramento del benessere psicologico dei minori medicalizzati [10].
Nel maggio 2021 anche la Svezia, fra le prime nazioni in assoluto a riconoscere il fenomeno della “disforia di genere”, decide di bocciare il “modello olandese” vietando inizialmente l’uso dei bloccanti su minori di 16 anni. La scelta viene giustificata dall’assenza di evidenze scientifiche sui benefici dei trattamenti, dall’esistenza di casi di de-transizione (persone trans che, dopo aver seguito tutto l’iter medico, si rendono conto di aver fatto una scelta sbagliata e si pentono del proprio percorso) e dal vertiginoso aumento di richieste. Nel 2022 vengono emesse nuove linee guida che stabiliscono l’assoluta priorità del supporto psicologico al fine di migliorare nei minori disforici l’accettazione del proprio corpo; nel marzo 2023, finalmente, l’ospedale Karolinska di Stoccolma cessa di somministrare bloccanti a tutti i minori di 18 anni.
Si aggiunge infine la Norvegia, che un anno fa ha adottato nuove e più strette raccomandazioni che definiscono “sperimentali” tutte le pratiche mediche connesse alla transizione di genere.
Pare che questi esempi stiano influenzando anche altri Paesi finora non citati, sia sul piano clinico – un articolo del British Medical Journal evidenzia crescenti prese di distanza dall’uso dei bloccanti in Australia, Francia e Nuova Zelanda [11] – che sul piano politico.
Proprio in Francia, un mese fa, alcuni senatori del partito repubblicano hanno esposto in un documento tutti gli aspetti negativi del trattamento medico dei minorenni disforici, definendolo “uno dei più grandi scandali etici nella storia della medicina”; secondo i media francesi, entro quest’estate verrà deposto un disegno di legge per vietare qualsiasi tipo di pratica medica legata alla transizione di genere ai minori di 18 anni [12].
“E in Italia come stanno le cose?”, ci si domanderà giunti a questo punto. Sembra che i venti del cambiamento abbiano leggermente mosso qualcosa anche nel nostro paese: è notizia del 2 marzo che la procura di Firenze ha aperto un’indagine esplorativa senza ipotesi di reato sull’operato dell’ospedale cittadino Careggi nei confronti dei “minori transgender” [13].
L’ipotesi è quella che, negli scorsi anni, siano stati prescritti in alcune occasioni farmaci bloccanti come la triptorelina senza prima intraprendere gli opportuni tentativi di psicoterapia previsti dalle disposizioni AIFA – che consentono la somministrazione del medicinale ai minori solo nel momento in cui l’assistenza psicologica e psicoterapeutica non si rivelino efficaci nel risolvere il caso. Ad avviare le procedure è stata un’interrogazione parlamentare a dicembre voluta dal senatore Maurizio Gasparri, con conseguente ordine di ispezione al Careggi da parte del ministro della salute Schillaci. Non essendo ancora trapelato nulla a proposito di tale ispezione (Schillaci ha stranamente imposto il silenzio stampa), è stata la procura fiorentina a prendere in mano la questione, che per il momento attende ulteriori sviluppi.